Arte e Coronavirus, il digitale sta aiutando le gallerie ma c’è bisogno di modificare il sistema. Innovazione sociale

di Schiesari

La quasi totalità del mondo dell’arte, dal punto di vista dell’innovazione, è come una prateria, un Far West, una landa desolata non digitalizzata. Il Coronavirus e lo #stateacasa però sta cambiando il panorama internazionale. Parola di Andrea Concas, esperto d’arte e fondatore di Art Backers, startup che permette ai giovani artisti di commercializzare e distribuire le loro opere, e Art Rights, che certifica le opere tramite blockchain e l’intelligenza artificiale. «In questi giorni stiamo vivendo una corsa all’oro digitale», afferma, «Musei, gallerie e istituzioni hanno capito che il digitale sarà la chiave e il collante per il mondo dell’arte, che portare le proprie opere online significa attrarre nuovo pubblico e creare nuove opportunità».

Dal virtuale al reale in un attimo

Lo abbiamo visto con i musei digitali e le numerose passeggiate virtuali offerte da singole istituzioni o da colossi come Google. Dal Louvre al Moma passando per i Musei vaticani oggi l’offerta digitale museale è enorme. Il problema però è se volgiamo lo sguardo all’altro mondo artistico, quello della vendita di opere. «L’arte non ha sistemi ben strutturati come il lusso o la moda. Dall’ecommerce alle sfilate online passando per le presentazioni di prodotti in Rete, queste realtà da anni ormai utilizzano il digitale per il proprio business. L’arte no. Il suo mondo non è regolamentato, la filiera è ancora alla carta e alla penna», racconta Concas.

Cambiare la filiera

Ed è qui che entra di petto con due idee. La prima è un libro, Professione arte, progetto firmato Mondadori che affronta questo mondo con un piglio e una grafica divulgativa ma offrendo profonde riflessioni su come cambiare un mondo stantio. L’altra è Art Rights, una miscela di alta tecnologia e opere analogiche. Ad oggi, sottolinea Concas, il 50 per cento delle opere sono false o mal attribuite. «Se erediti un’opera d’arte al momento non ti resta che andare in un archivio, pagare una quota, e ricevere un’analisi storica per confermare o meno che si tratti di un certo artista. È un’operazione che costa parecchio, da centinaia a migliaia di euro». Art Rights invece è differente. Prima di tutto costa meno e poi offre una responsabilità distribuita nell’autenticazione. «Come prima cosa l’utente crea il propio certificato», spiega Concas, «diciamo che afferma di avere acquistato un Picasso, ha la fattura di acquisto, la pubblicazione e tutta la documentazione. La inserisce nel nostro sistema e quell’opera prende vita, ora ha un certificato ma è ancora basato solo sulla sua affermazione». A questo punto l’utente può chiedere ad altri utenti di certificare il proprio certificato. Può rivolgersi al conservatore, al restauratore, a un museo, basta che siano enti riconosciuti. Se questi riconoscono l’opera come autentica mettono il loro timbro sul certificato, «come se fosse un passaporto digitale», sottolinea Concas, «Ogni conferma porta del denaro al certificatore che ovviamente si prende la responsabilità di quanto affermato e chi vorrà acquistare l’opera sa che è stata garantita da determinate istituzioni quindi che può fidarsi».

Le gallerie devono cambiare mentalità

Come dicevamo, il Coronavirus ha dato una forte spinta al digitale. È facile oggi vedere su Instagram o Facebook gallerie che sponsorizzano i propri vernissage digitali, che offrono tour virtuali o vendite sul web. Una fiera come Art Basel, per esempio, ha organizzato delle preview tramite Online Viewing Rooms, stanze virtuali in cui i collezionisti possono «visitare» tutte le gallerie partecipanti, navigare tra opere e autori. Il problema, sottolinea Concas, è che occorre una strategia di lungo termine. «Chi non ha una percorso ben definito non può sopravvivere. Ora c’è una frenesia ad andare online e tutto va bene, il pubblico si innamora delle novità, ma i numeri parlano chiaro, dopo una prima fiammata di interesse le persone si allontanano e per fidelizzarle servono contenuti, tanti e ben strutturati». Insomma, non basta un post sui social per diventare digitali, occorre cambiare mentalità. E non c’è momento migliore per farlo.