
New York negli anni ’30 il gallerista dei surrealisti Julian Levian si chiedeva come commercializzare gli esperimenti filmici dei suoi artisti, pensava di venderli in edizione limitata per valorizzare il cinema non solo come una narrazione mutuata dalla letteratura, ma come un linguaggio artistico vicino all’immagine pittorica ed alla fotografia. Levy nelle sue memorie scriveva: “Film concepiti da pittori importanti come Duchamp, Léger, o Dalì dovrebbero avere lo stesso valore di una tela dipinta dalla loro mano”.

Fernand Léger “Ballet Mecanique” 1924 – fotogramma
Anche se i primi esperimenti video dei Futuristi, dei Surrealisti e di quasi tutte le altre altre avanguardie del ‘900 ne hanno precorso i tempi, la video arte è un fenomeno artistico che si ufficializza verso la fine degli anni ’60 ed i primi anni ’70,negli anni ’90 è un fenomeno di massa grazie alle tecnologie digitali diventando di fatto uno dei progenitori dell’arte digitale. Tecnica e creatività, arte e tecnica sono sempre un binomio vincente.
In Italia grazie alle intuizioni di alcuni critici e galleristi si formano alcuni video artisti che hanno segnato la storia della video arte, soprattutto a Venezia nella Galleria del Cavallino diretta da Paolo e Gabriella Cardazzo dal 1972 al 1979 e nel Centro Video Arte di Palazzo dei Diamanti di Ferrara, diretto prima da Lola Bonora poi da Carlo Ansaloni fra il 1972 ed 1994. In queste realtà operavano fra gli altri Bill Viola, Marina Abramovich e Fabrizio Plessi.
Oggi i festival e le iniziative legate alla video arte ed all’arte digitale si moltiplicano a livello esponenziale, senza che ci sia però una vera e propria cultura orizzontale, in grado di fornire i minimi e necessari strumenti per la comprensione di questo fenomeno culturale così fortemente legato alla contemporaneità. Infatti spesso il dibattito è ancora oggi tristemente fermo sull’oggetto artistico e sul “problema” della sua riproducibilità.
Mito Nagasawa e la rivoluzione digitale

Mito Nagasawa, opere digitali su carta fotografica, ritoccate a mano. Opere che sono diventate subito un cimelio da collezione. L’arte digitale si sta ritagliando un suo spazio privilegiato fra i collezionisti, anche grazie al potente impatto scenico dai forti significati simbolici innovativi, ma la cosa che paradossalmente più ne limita la diffusione, è la sua natura immateriale e la facilità con cui può essere riprodotta, queste peculiarità generano una forte diffidenza dei collezionisti abituati all’oggetto come “feticcio” che appartengono storicamente alla scultura, pittura, disegno e fino ad una certa epoca anche alla fotografia. Per l’arte digitale dobbiamo parlare di diritti d’autore e di diritti di sfruttamento dell’opera d’arte digitale, serve una solida base di contratti giuridici e certificazioni digitali dei files simili alla blockchain.


La Digital Art comporta lavorazioni di cui la conoscenza tecnica dei software deve essere profonda e non da meno è necessario un certo senso di “percezione associativa”. Ma non basta. Perché i manuali delle case madri dei programmi o gli innumerevoli tutorial presenti in rete per imparare “come fare per” non potranno mai soddisfare tutte le esigenze di un artista digitale.
La pittura consente l’addizione della materia dei colori per realizzarne i contenuti. Con la Digital Art si va per addizione e sottrazione. Si aggiungono e/o tolgono immagini precedentemente realizzate o parti di esse.
La pittura è materica. Con la Digital Art la materia è più invadente dei colori analogici quali acrilici, olii, tempere…perché paradossalmente i pixel pesano più di tubetti e polveri di colore per i sistemi operativi dei computer e hard disk. Ma questo i critici dell’arte non lo sanno. Non sanno che per certi file occorre investire in Ram e sistemi operativi potenti. Non possono sapere (perché non è il loro lavoro) che un’immagine composta da tante altre (i “layer”) a volte non può essere salvata in “psd” ma in “psb”. Perché forse a stento conoscono il jpeg.


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